07 Novembre 2016
UNA DOMANDA DIFFICILE…

Ricevo spesso mail da lettori/aspiranti scrittori, incuriositi e desiderosi di scoprire come trasformare una passione in lavoro.
Alcuni mi chiedono conto di eventuali trucchi o scorciatoie (e a questo punto, non posso che pensare all’editoria a pagamento…ma su questo argomento tornerò in futuro).
Altri, se esistono scuole che possano insegnare l’arte della scrittura.
Tutte domande a cui rispondo piuttosto facilmente.
Ma ieri, la mail di una ragazzina di 10 anni, mi ha messa veramente in crisi.
Tra le decine di righe in cui mi parlava di sé, della sua famiglia e dei libri che ha letto ultimamente, butta lì a caso quattro parole, che mi hanno tramortita.
Ma tu, perché scrivi?
Beate, innocenti creature che sanno porre l’accento con tanta semplicità su cose che semplici non sono affatto.
Ho alzato d’istinto la mano per sfornare una risposta, ma poi non ce l’ho fatta a premere invio. Ho richiuso il computer e mi sono messa a riflettere.
Perché scrivo?
In prima battuta risponderei semplicemente: perché mi piace (mi perdonerà Eco che diede questa stessa risposta in una vecchia intervista).
E aggiungerei anche un gnè, gnè, gnè con tanto di smorfia…(faccio sempre così quando qualcosa mi urta. Infantile? Può darsi, ma bisogna pur accettare i propri limiti).
Potrei prendere spunto da Camilleri, che asseriva di non saper far altro.
Ma alla fine, queste sarebbero solo risposte prese in prestito da altri e non assolverebbero alla spinosa domanda.
Scavando a fondo, la questione si fa veramente interessante.
La scrittura a volte riveste il ruolo di vaso contenitore, in cui riversare tutto quello che passa nella testolina dello scrittore.
Altre volte è un amplificatore di sentimenti, vicissitudini, esperienze.
Ma queste sono riflessioni che si fermano al primo strato di sedimento. Vogliamo fare gli archeologi e andare ancora più a fondo?
Io scrivo perché me lo chiede quella bestiolina selvatica che è la scrittura.
La scrittura è viva per sua natura e reagisce in modo proprio agli stati d’animo che mi caratterizzano.
Sono felice da far schifo? I miei personaggi di riflesso dovrebbero ballare e saltare e festeggiare. Invece no.
Ben che vada me ne muore uno e non che possa fare qualcosa per salvarlo (a resuscitarlo non ci penso nemmeno).
Sono triste? Sento il bisogno di scrivere e impilo pagine su pagine con grande facilità.
Allo stesso modo, il giorno dopo, non riesco a strappare che qualche riga che per scorrevolezza e musicalità, ricordano delle unghie che grattano sulla lavagna.
E’ come se la scrittura mi guardasse dicendo: oggi non mi va, non rompere. E poi si girasse dall’altra parte, dandomi con nonchalance la schiena.
In effetti, ora che ci penso, per temperamento la scrittura ricorda un gatto.
Provate voi a convincere un felino domestico che se ne sta per i fatti suoi, a raggiungervi. Il massimo che otterrete, sarà uno scuotimento indignato di vibrisse e un miagolio oltraggiato.
Allo stesso modo, quando le parole non vengono…beh…non vengono.
Insomma, noi scrittori abbiamo sulla scrittura, lo stesso controllo che ha una pulce su una tempesta tropicale.
Non la usiamo come mezzo espressivo, ma succede esattamente il contrario.
Siamo semplici servi (neanche tra i più svegli) di qualcosa di così grande da non riuscire nemmeno a comprenderlo, sebbene viva costantemente nella nostra testa.
Sono riuscita a spiegarmi? Rileggendo questo post, direi proprio di no. Come al solito ho fatto un bel casino. Ma meglio di così non posso fare.
Pertanto, come un gatto, fingo una superiorità che in effetti non provo e dico: tsè, tsè.
Ad Ilaria, per avermi passato questa patata bollente, mando un ringraziamento. E rispondo così: perché scrivo? Non lo so, ma spero di farlo bene.

C.F.

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